Montalbano contro Montalbano: Un'anteprima su quale sarà il finale del commissario
Montalbano contro Montalbano: Ecco quale sarà il finale del commissario
Nel dicembre 2007 la rivista siciliana Stilos pubblicò in esclusiva assoluta e in anteprima il primo capitolo di un romanzo di Camilleri della serie di Montalbano che l’autore consegnò a Sellerio con l’obbligo che fosse pubblicato dopo la sua morte a chiusura dell’intero ciclo. Il romanzo fu definito dall’autore “futurissimo” e intitolato “Riccardino”, titolo del tutto dissonante rispetto al modello tradizionale. Non si sa perché proprio questo romanzo fu scelto e scritto perché uscisse postumo. Non è escluso che il motivo sia da ricercare nel fatto che il Montalbano letterario incontra il Montalbano televisivo in una specie di resa dei conti o di agnizione. Pubblichiamo il testo, con l’avvertenza che come qualsiasi appassionato di Camilleri potrà notare, il testo risponde a uno stile usato in anni ormai remoti, molto sicilianizzato e con abbondante uso anche di termini arcaici della parlata agrigentini. Ma il tono è sempre lo stesso: come quasi tutti i romanzi del ciclo, anche questo comincia (rectius: comincerà) con Montalbano che viene svegliato nel sonno.
Il telefono sonò che era appena appena arrinisciuto a pigliari sonno, o almeno accussì gli parse, doppo ore e ore passate ad arramazzarisi a vacante dintra al letto. Le aviva spirimintate tutte, dalla conta delle pecore alla conta senza pecore, dal tentare d’arricordarsi come faciva il primo canto dell’Iliade a quello che Cicerone aviva scrivuto al comincio della Catilinaria, nenti non c’era stato verso. Doppo il Quousque tandem, Catilina, nebbia fitta. Era una botta d’insonnia senza rimeddio, pirchì non scascionata da un eccesso di mangiatina o da un assuglio di mali pinseri. Addrurnò la luci, taliò il ralogio; non erano ancora le cinco del matino. Di certo lo chiamavano dal commissariato, doviva essiri capitata qualichi cosa di grosso. Si susì senza nisciuna prescia per andare ad arrispunniri. Aviva una presa telefonica macari allato al comodino, ma non aviva mai voluto adoperarla pirchì si era fatto pirsuaso che quella piccola caminata da una cammara all’altra, in caso di chiamata notturna, gli dava la possibilità di livarisi le filinie del sonno che si ostinavano a restargli attaccate nel ciriveddro.
«Pronto?» Gli era nisciuta una voci non solo arragatata, ma che pariva macari ’mpastata con la colla.
«Riccardino sono!» fece una voci che, al contrario della sò, era squillanti e festevoli. La cosa l’irritò. Come minchia si fa ad essiri squillanti e festevoli alle cinco del matino? E inoltre c’era un dettaglio non trascurabile: non acconosceva nisciun Riccardino. Raprì la vucca per mannarlo a pigliarisilla in quel posto, ma Riccardino non gliene desi tempo.
«Ma come? Te lo scordasti l’appuntamento? Siamo già tutti qua, davanti al bar Aurora, ci manchi solo tu! E’ tanticchia nuvolo, ma cchiù tardo sarà una jornata bellissima!»
«Aspettatemi. Tra deci minuti, un quarto d’ora massimo, arrivo» mentì Montalbano.
E riattaccò, tornando a corcarsi. D’accordo, aviva fatto una carognata, avrebbe dovuto chiarire a Riccardino che non era lui la pirsona che aspittavano, invece accussì quelli davanti al bar Aurora avrebbero perso mezza matinata senza vidiri cumpariri l’amico che mancava. D’altra parte, siamo giusti, uno non può alle cinco del matino sbagliare nummaro, arrisbigliare a uno straneo che non ci trase a cavarsela senza pagari pigno. Il sonno era oramà irrimediabilmente perso. Meno mali che Riccardino gli aviva ditto che la jornata sarebbe stata bona. Si sentì racconsolato.
La secunna telefonata arrivò che erano passate di picca le sei.
«Dottori, dimando compressione e pirdonanza. Che feci, l’arrisbigliai?»
«No, Catarè, vigilante ero».
«Sicuro sicuro, dottori? O me lo sta dicenno per complimento?»
«No, Catarè, non avere rimorsi. Dimmi».
«Dottori, ora ora Fazio chiamò pirchì disse che a lui l’avivano chiamato».
«E tu perché chiami me?»
«Pirchì Fazio mi disse di chiamarlo».
«A me?»
«Nonsi, dottori. A Fazio».
Di questo passo, non sarebbe mai arrinisciuto a capiricci nenti. Riattaccò e chiamò Fazio sul cellulare.
«Che c’è?»
«Mi dispiace disturbarla, dottore, ma hanno
sparato a uno».
«L’hanno ammazzato?»
«Sissi, dottore. Due colpi in faccia. Sarebbe opportuno che lei venisse».
«Augello non c’è?»
«Dottore, se ne è scordato? E’ andato nel paese dei suoceri, con la moglie e il picciliddro».
E subito Montalbano pinsò con amarizza che quello che aviva appena finuto di spiare, e cioè se Mimì Augello stava di servizio, era un segno dei tempi, anzi meglio, del tempo al singolare, quello
sò, pirsonale, dell’anni che principiavano a pisargli: una volta avrebbe fatto carte favuse per tiniri Mimì Augello lontano da una indagine, non per invidia o per fottergli la carriera, ma per non spartiri con lui il piaciri indescrivibile della caccia solitaria, ora invece l’avrebbe vulanteri mannato al posto sò, gli avrebbe lassato in mano l’inchiesta. Certo, quanno gli capitava un caso ancora ci si ghittava dintra cavallo e carretto, come aviva fatto sempre, ma, se ci arrinisciva, preferiva scansarselo, il caso, fin dal principio. La vera verità era che da qualichi tempo gli fagliava la gana. Doppo anni di pratica si era fatto capace che non c’era pirsona cchiù scarsa di ciriveddro di chi cridiva d’arrisolviri un problema ricorrendo all’omicidio. Altro che De Quincey e «L’assassinio come una delle belle arti»! Cretini tutti, sia quelli che ammazzavano al minuto per avidità, gelosia, vendetta, sia quelli che massacravano all’ingrosso in nome di parole che inchivano la vucca come libertà e democrazia. E lui si era stuffato di aviri sempre a chiffari coi cretini. Che certe volte erano furbi, certe volte i cretini erano macari intelligenti, come aviva acutamente notato una volta Leonardo Sciascia, ma, zarazabara, sempre scarsi di testa ristavano.
«Dov’è successo?»
«In mezzo a una strata, manco un’ora fa».
«Ci sono testimoni?»
«A tinchitè, quanti ne vuole».
«Quindi hanno visto l’assassino?»
«Per vederlo, l’hanno visto, dottore. Ma, a quanto pare, non è stato possibile riconoscerlo».
E come ti sbagli, in questa nostra bella terra? Vedi, ma non riconosci. Assisti, ma non puoi precisare. Se presente, ma ti sei scordato gli occhiali. D’altra parte, siamo giusti, chi s’azzarda a dichiarare d’aviri raccanosciuto un assassino mentre assassina, oggi come oggi si trova automaticamente l’esistenzia rovinata non tanto dall’assassino stisso che si voli vendicare, quanto chiuttosto dalla polizia, dalla stampa, dalla televisione, dai giudici.
«L’hai inseguito?»
«Vuole babbiare?»
E come ti sbagli, in questa nostra bella terra? Sissignore, c’ero, ma non ho potuto corrergli appresso perché avevo una scarpa slacciata. Sissignore, ho visto tutto, ma non sono potuto intervenire perché soffro di reumatismo. D’altra parte, siamo giusti, quanto coraggio ci voli per mittirisi a curriri, disarmato, appresso a uno che ha appena finuto d’ammazzari e che ha minimo minimo un altro colpo in canna?
«Hai avvertito il pm, il dottore, la scientifica?»
«Tutti».
Stava pigliando tempo, se ne capacitava perfettamente. Ma non potiva scapottarsela. Spiò di malavoglia:
«Come si chiama ’sta strata?»
«Via Rosolino Pilo, dalle parti di…»
«La conosco, arrivo».
Facenno voci, santianno e sunanno il clacson fino a intronarsi, arriniscì a farisi largo in mezzo a una cinquantina di pirsone, accorse subitanee come mosche al feto di una cacata, che attuppavano l’accesso di via Rosolino Pilo a chi come lui viniva da via Nino Bixio. L’attuppamento era dovuto al fatto che l’accesso era sbarrato da una machina della polizia assistimata di traverso e oltretutto presidiato dagli agenti Inzolia e Verdicchio, meglio accanosciuti in commissariato come «i vini da tavola». All’altro capo, che dava su via Tukory, ci stavano di guardia, con un’altra machina, le «vestie serbagge», vale a dire gli agenti Lupo e Leone. La sezione «ovini» del commissariato, e cioè Gallo e Galluzzo, era al centro della strata ’nzemmula a Fazio. E sempre in mezzo alla strata si vidiva un corpo stinnicchiato ’n terra. Poco distante, tri òmini stavano addossati a una saracinesca.
Dalle finestre, dai finestroni, dai terrazzini, vecchi e picciotti, fimmine e mascoli, picciliddri, cani e gatti s’affacciavano a taliare, altri si sporgevano a rischio di andarsi a catafottere sulle basole per vidiri meglio quello che capitava ed era tutto un chiamari, arridiri, chiangiri, prigari, fari voci, un gran virivirì che pariva pricisa ’ntifica la festa di san Calò. E propio come nella festa c’era chi scattava fotografie e chi ripigliava la scena con quelle telecamere niche niche che oggi sanno adoperare macari i neonati. Il commissario accostò al marciapiedi, scinnì. E subito s’intrecciò supra la sò testa un animato dialogo aereo.
«Talè! Talè! ’U commissariu arrivò!»
«Montalbano è!»
«Cu? Montalbanu? Chiddru di la televisioni?»
«No, chiddru veru».
A Montalbano gli vinni una violenta botta di nirbuso.
«Non si può fare in modo che questa gente non se ne stia affacciata a godersi lo spettacolo? I corvi hanno più decenza!»
«E come facciamo, dottore? Ci mettiamo a sparare in aria?»
«Chi sono quelli?» spiò facendo ’nzinga con la testa verso i tri ’mpiccicati contro la saracinesca.
«Amici del morto. Erano con lui quando è successo».
Montalbano li taliò. Tutti trentini, tutti coi capilli a spazzola, tutti in felpa grigia e scarpe da ginnastica, tutti bastevolmente atletici, tutti con la facci cotta dal sole. Ma al momento la loro ariata sportiva era scomparuta per lassare il posto a una specie di rigidità da manichini, certo dovuta allo scanto e allo shock. Lo pigliò un dubbio.
«Che per caso sono militari?» spiò spiranzuso. Se pi caso erano sordati in borgisi, potiva
immediatamente sganciarsi dalla facenna passannola ai carrabbinera.
«Nonsi, dottore».
Macari il morto era vistuto all’istisso modo, solo che la parte di davanti della maglietta di felpa aviva macchie e striature marrò scuro, dovute al sangue che faciva una pozza sulle basole. La facci non ce l’aviva cchiù, scancillata. Allato alla mano mancina c’era un cellulare. Fu solo allura che Montalbano, talianno torno torno, s’addunò che supra la saracinesca inserrata ci stava un’insegna. C’era scritto: Bar Aurora.
Ebbe istantanea cirtizza, tanto assoluta quanto inspiegabile, che il povirazzo sparato era l’istissa pirsona che gli aviva telefonato un’orata avanti sbagliando nummaro. Si avvicinò ai tri che stavano stritti stritti, come se sintivano friddo.
«Il commissario Montalbano sono. Come si chiamava il morto?»
I tri atleti parivano addrummisciuti addritta, le pupille nell’occhi sbarracati firriavano come palline a dritta, a manca, supra, sutta e sicuramenti non vidivano nenti. Non si cataminarono, non arrispunnero, forse non arriniscivano a mettere a foco la pirsona che avivano davanti.
«Come si chiamava?» ripitì, pacinziuso, Montalbano.
Finalmente uno, facenno una faticata evidente, arriniscì a bloccare i sò occhi davanti a quelli del commissario.
«Riccardo Lopresti» murmuriò.
«Riccardino?» fece Montalbano.
Gli parse d’aviri ditto una parola mammalucchigna, una parola magica, fu come se avesse innestato in una presa di corrente la spina che dava energia ai tri. Persa di colpo l’affatata immobilità, ripigliarono calore, colore, parola, sentimento, vita.
«Lo conosceva?» spiò, con le labbra che gli trimavano, quello che aviva risposto. Montalbano non gli replicò. Il secunno accomenzò a dire a voci vascia, quasi una prighera:
«Riccardino, Dio mio, Riccardino…».
Il terzo non parlò, si mise a chiangiri silenziosamente, tinennosi la facci tra le mano. Un raggio di sole, ’mproviso, priciso come la luce di un riflettore, illuminò il gruppo del commissario e dei tri atleti.
Montalbano isò la testa: il nuvolo aviva fatto occhio, la jornata, da ummirosa che era, stava cangiando. Riccardino aviva visto giusto, sarebbe stata propio una gran bella jornata. Ma non per lui. E comunque la cosa per Riccardino oramà non aviva cchiù nisciunissima importanza.